George Gershwin - Note di Sala e Guida all'Ascolto

Teatro Verdi Trieste, Riva 3 Novembre 1, Trieste
Lunedì 19 maggio 2025, ore 20:30

NOTE DI SALA

La stesura del testo originale della mitica Rhapsody in Blue di George Gershwin è per soli due pianoforti. Tutto il resto che si ascolta di solito, compreso il celeberrimo attacco affidato al clarinetto e comprese le tante strumentazioni per complessi piccoli o grandi, per formazioni jazz o orchestre tradizionali è opera di Ferde Grofé, l’ottimo arrangiatore degli organici nell’assetto variabile della Concert Band di Paul Whiteman che per prima la eseguì (New York, 1924). Il ventiseienne Gershwin, solista quella sera e già autore popolarissimo, non aveva infatti competenze come strumentatore e orchestratore. Era soltanto (!) un geniale innovatore del linguaggio pianistico e della nuova musica del suo tempo, non solo leggera e di consumo, non solo classica. Vale la pena di riassumerne il contesto. Per gran parte dell’Ottocento la musica si concentra nei maggiori centri americani sulla costa atlantica, a Filadelfia, Boston, New York. È determinata dal (grande) flusso in entrata di musicisti soprattutto tedeschi e dal (piccolo) flusso in uscita temporanea di studenti in addestramento a Londra, Parigi e ancor più a Weimar, Lipsia, Berlino. Nascono nelle capitali americane dell’Est (Ovest e Midwest  assenti) stagioni d’opera, orchestre sinfoniche, società di concerti in puro stampo europeo e identico taglio stilistico. Le scuole musicali di tali città hanno programmi identici a quelli dei maggiori centri europei. I pianisti-compositori americani seguono quei percorsi e ne fanno uso buono ma non innovativo.  Le cose cambiano radicalmente a fine Ottocento e inizio Novecento. Sbarcano in quantità gli immigrati ebrei, in fuga dalle crescenti persecuzioni (pogrom) nell’impero russo, che comprende anche le attuali repubbliche baltiche assieme a Polonia e Ucraina. Con loro arriva una cultura musicale diversamente popolare e a suo modo classica, forgiata da lunga tradizione e innato talento. I nuovi musicanti dell’est europeo entrano in contatto con l’”altra” musica americana che è quella, non meno emarginata, degli emancipati dalla schiavitù del Sud profondo. Blues afroamericano e klezmer ashkenazita diventano fecondazione eterologa nel gran corpo della (ancora per poco) accogliente America. Il fenomeno Gershwin è figlio di quelle condizioni. Nato da una coppia di immigrati ebrei ucraino russi nel rione di Brooklyn a New York, George Gershwin (americanizzazione dell’originale Jacob Gershwine, variante del precedente Gershowitz) inizia relativamente tardi a suonare il pianoforte. Attorno ai dieci anni comincia a strimpellare lo strumento di casa, prende lezioni per un paio d’anni da insegnanti privati, poi si affida per un biennio al più strutturato Charles Hambitzer che gli fa conoscere anche il repertorio “serio” europeo. Gli basta per essere assunto a quindici anni (1913) come song plogger, che è un tipico impiego nella Tin Pan Alley di New York, la via in cui nel primo Novecento hanno sede i principali editori di musica di consumo. In un tempo in cui sono poco diffusi o non esistono ancora dischi e radio, il song plogger sta seduto al piano e suona, su richiesta, le nuove musiche che i potenziali acquirenti vogliono ascoltare per decidere se comprare o meno lo spartito relativo. Non è solo Gershwin a farsi così le ossa. Fra i tanti, tocca anche a Jerome Kern e Irving Berlin: simili origini, identici trionfi a Broadway e Hollywood con musical e canzoni. Il pianoforte diventa l’irrinunciabile strumento di lavoro per Gershwin, l’attrezzo per raffinare e collaudare le intuizioni melodiche e armoniche della propria fantasia. A sedici anni pubblica il suo primo song, passa alle dipendenze del colosso editoriale Aeolian come esecutore e autore. Registra su rulli di pianola una marea di canzoni sue e altrui, con nome proprio e pseudonimi vari. Ha diciannove anni quando ottiene il primo grande successo con il ragtime Rialto Ripples. Siamo nel 1917. Scott Joplin scompare e non vive abbastanza per soffrire il declino del suo stile ragtime, superato dall’avvento delle nuove e multivariate forme di commistione/integrazione fra la musica dei neri e quella dei nuovi arrivati bianchi che va sotto il nome di jazz. Fra l’altro pare che Joplin non fosse un gran virtuoso, non competitivo con Jelly Roll Morton, l’esponente della nuova onda che s’impadronisce delle risorse del pianoforte introducendo nuove scale, altri accordi, diverse manualità. Jelly Roll ha maggiore dinamica nel basso (mano sinistra) con intrichi ritmici afro-caraibici e spettacolare virtuosismo nei passaggi della mano destra, variazioni nella ripetizione.  Al ruvido sincopato del ragtime subentrano prima i bassi più elaborati e veloci dello Harlem Stride, più tardi le fluide movenze dello swing e, verso la fine degli anni Trenta, gli scatenamenti del boogie woogie. Un attento uso delle dissonanze sui tasti del pianoforte attenua le distanze armoniche con le intonazioni flessibili dei fiati e delle chitarre nel blues. Emergono i suoni ancora più articolati di Thomas “Fats” Waller, i passaggi pirotecnici di Art Tatum (ammirato, forse invidiato da Horowitz e Grotowski), le scioltezze di Earl Hines. Il pianoforte diventa immancabile nei complessi jazz minimi e grandi. Sono pianisti-compositori i leader delle big band attive fra gli anni Venti e gli anni Cinquanta: Fletcher Henderson, Duke Ellington, Count Basie, Stan Kenton. Fondendosi bene con le note gravi del contrabbasso, con i ritmi della batteria e con i colori di clarinetti e sassofoni, assieme agli squilli degli ottoni, il pianoforte esalta la fantasia degli improvvisatori, sia singoli che in gruppo. È ideale per un tipo d’intrattenimento che dalle case private si sta trasferendo in locali pubblici, ovviamente ben diversi da sale da concerto o chiese. Sta arrivando la riproduzione meccanica, il disco e la radio. In parallelo cresce a dismisura il mercato della musica riprodotta in disco, alla radio, al cinema, in teatro. È grazie a un musical di Broadway che esplode la fama del ventenne Gershwin. Il popolarissimo cantante Al Jolson travestito da nero (lui bianco, immigrato ebreo dalla Lituania russificata) nel 1919 inserisce nel fortunato musical Sinbad la canzone Swannee, la incide per la Columbia e ne fa un successo mondiale. Segue, per Gershwin, una catena di song di straordinaria fortuna. Non dimentica affatto il pianoforte, per il quale scrive, dopo la stupefacente Rhapsody in Blue, anche il bel Concerto in fa (1925), una seconda Rapsodia (1931) e le Variazioni su I Got Rythm (1934) per solista e orchestra, più tre eccellenti preludi (1926) e un album di adattamenti di canzoni (1932) per pianoforte solo. Ma a Gershwin, come prima di lui a Scott Joplin, non basta fare fortuna con le canzonette. Vuole scrivere cose importanti, alla maniera europea. Gli riuscirà con l’estrema opera-musical Porgy and Bess, però dopo un percorso durato oltre un decennio. La voglia di scrivere in grande si manifesta durante la visita in Europa a metà anni Venti, con la richiesta di lezioni a Nadia Boulanger che declina e a Ravel che rinuncia con la elegantissima motivazione “perché diventare un secondo Ravel quando si è già un primo Gershwin”. Richiesto di insegnare, si ritrae pure Schönberg (“ti farei diventare un cattivo Schönberg mentre sei un ottimo Gershwin”). Gershwin incontra anche Alban Berg a Vienna, che gli regala la partitura della Suite Lirica.  Frequenta i cabaret di Berlino. Tornato in America, si fa dare lezioni di composizione classica dall’innovativo ucraino immigrato Joseph Schillinger (che avrebbe rivendicato un ruolo importante nella composizione di Porgy and Bess). Lo stile è certamente lontano dall’accademismo europeo. Non segue neppure le frenesie digitali dei pianisti neri che dominano negli anni Venti e Trenta, però ne assorbe i giri armonici e le ambiguità tonali. Di sicuro conta la dimestichezza di Gershwin con il repertorio di consumo acquisita in gioventù, la necessaria spavalderia e l’immancabile tocco sentimentale. La sintesi fra tanti componenti esterni e la vena creativa originale è ciò che rende davvero popolare, nel senso migliore del termine, tutta la musica di Gershwin e la trasforma in fonte di un genere nuovo d’intrattenimento leggero, ma non banale o soltanto di immediato sfruttamento commerciale.  Anche grazie a Gershwin il pianoforte acustico sopravvive nella musica destinata al pubblico di massa. Lo dimostra, per esempio, il successo delle trasmissioni televisive, dagli anni quaranta in poi, della brillantissima pianista jazz, cantante, intrattenitrice Hazel Scott. O la decennale fortuna, sui palchi di Las Vegas, del pittoresco (Wladziu Valentino) Liberace, con il suo pianoforte bianco e gli abbigliamenti multicolori. Non si perdono, neppure ai nostri giorni, le fortune dei cantanti al pianoforte di cose non banali. La rivoluzione del rock’n roll, negli anni Cinquanta parte dai pianoforti scatenati di Fats Domino e Little Richard. Si accompagnano al pianoforte Ray Charles nel segmento soul, Nat King Cole e Billy Joel in quello del song, Elton John nel pop-rock. E poi arrivano i recenti suoni accattivanti del pianoforte, sempre acustico, dell’italiano Ludovico Einaudi e del giapponese Ryuichi Sakamoto. Le partiture orchestrali che hanno (anche) assicurato l’immortalità alle melodie di Gershwin, ai suoi ritmi e pure alle sue armonie, sono firmate da altri, professionisti dell’arrangiamento, primo fra tutti Ferde Grofé. Stasera ascolteremo le versioni per due pianoforti, su un pianoforte a quattro mani, con opportuna integrazione ritmo-timbrica di percussioni, anche delle celebrate Ouverture cubana (1932) e An American in Paris (1928) che rivelano il fondo vero della musica di Gershwin; che è pianistico, prima ancora che strumentale e, forse, anche vocale. Per questo è bene celebrare così il centesimo (pur espanso di una unità) anniversario della Rhapsody in Blue.

Enzo Beacco

Curiosando

1932 - La Grande Depressione colpisce pesantemente l’industria discografica: meno 95% delle vendite. Radio Lussemburgo tenta di raggiungere la Gran Bretagna trasmettendo ad altissima potenza, ma provoca un “buco” nella ionosfera. Walt Disney presenta il primo cartone animato a colori.

1924 - Il sarcofago di Tutankhamon viene aperto e subito richiuso, per protesta contro “interferenze delle autorità Egiziane”. La Kleenex mette in vendita i fazzoletti di carta, mentre l’Osservatorio Astronomico di Greenwich trasmette il primo “segnale orario” alla radio della storia.

1928 - Il debutto a Berlino de L’opera da tre soldi è un grande insuccesso, ma dopo alcune rappresentazioni con il teatro quasi vuoto, poi continuò con oltre 400 repliche tutte esaurite.  Un ragioniere americano, inventa quasi per caso la Bubble Gum, e la colora di rosa perche’ non aveva altri colori.