GUIDA ALL'ASCOLTO CONCERTO N° 1479 | WIENER KLAVIERTRIO

Politeama Il Rossetti, Largo Giorgio Gaber 1, Trieste
Domenica 15 maggio 2022, ore 20:30

Franz Peter Schubert (Himmelpfortgrund, Vienna 1797 - Vienna 1828) 
Trio (Sonata) per pianoforte in SI bemolle maggiore, D. 28 (luglio - agosto 1812)

  • Allegro moderato

Felix Mendelssohn Bartholdy (Amburgo 1809 - Lipsia 1847) 
Trio per pianoforte n. 1 in re minore, op. 49  (luglio 1839)

  • Molto allegro e agitato
  • Andante con moto tranquillo
  • Scherzo. Leggero e vivace
  • Finale. Allegro assai appassionato

Franz Peter Schubert (Himmelpfortgrund, Vienna 1797 - Vienna 1828) 
Trio per pianoforte n. 2 in Mi bemolle maggiore, op. 100, D. 929 (novembre 1827)

  • Allegro
  • Andante con moto
  • Scherzando. Allegro moderato. Trio
  • Allegro moderato

NOTE DI SALA

Il primo Trio, op.49 composto da Mendelssohn è il frutto creativo di un trentenne e consegue i pieni risultati che la maturità e l’esperienza compositiva del brillante pianista che era non potevano non elargire. In quattro movimenti e nella stessa tonalità del suo secondo Concerto per pianoforte di due anni prima, questa brillante pagina è una delle più frequentate dai concertisti, in ragione della sua innegabile e schietta ricchezza melodica: i soli due primi movimenti esibiscono una ricchezza lirica tale da non aver paragoni. L’Allegro iniziale, in forma sonata, a differenza dei brevi motivi che spesso venivano utilizzati in questi movimenti d’esordio, si articola in due grandi campiture melodiche dotate ciascuna d’una polivalente espansività, costruita su più frasi distinte, che rende sorprendentemente densa e completa la loro interazione; ed è spontaneo che tutto questo lirismo venga perciò delegato alla coppia ideale, quella degli archi, per poter esprimere tale profluvio di canto che, in dialogo d’armonia e contrappunto, si edifica su una parte di pianoforte particolarmente virtuosistica. La tastiera viene in evidenza nel secondo movimento che, con la seducente melodia affidata a questo strumento, evoca con grazia il mondo dei 48 Lieder ohne Worte (1827-45) e consente ai tre esecutori d’esibire a pari titolo la loro maestria espressiva prima dell’irruzione dello Scherzo che, mercuriale e fugace, consente agli archi di scatenarsi in un gioco vivace che fluisce privo di soluzione sino al Trio, caratterizzato da un tempestoso e intricato gioco contrappuntistico, che per un breve lasso di tempo condiziona l’allegria incontrollata di questo movimento, prima che il fluire instancabile e leggero degli strumenti trascini lo Scherzo alla sua conclusione.

Per quanto celebre in ragione del suo lirismo, il Trio è anche un funambolico meccanismo d’inquieto slancio, teso come un arco dal primo al quarto movimento, un rondò che, su un ritmo che evoca una marcia (in re minore), infonde tutta la serenità melodica dell’Andante trasportando l’ascoltatore nei meandri d’un turbolento sviluppo e ripresa che sfociano in una coda che modula radiosa su un Re maggiore trionfale. Un gesto, questo, che in mano meno abili di quelle di Mendelssohn sarebbe potuto diventare ordinario, banale, superficiale ma che qui si trasfigura nella perfetta sommatoria di tutti gli elementi che costituiscono questo stupefacente lavoro; frutto evidente d’una maturità che mancava, com’è prevedibile, al quindicenne Schubert che si misura con l’Allegro iniziale del suo Trio, D.28 complicandosi l’esistenza con un saggio sbilanciato, imperfetto ed irrisolto che articola una serie di trovate compositive che il giovane musicista non è ancora in grado di gestire. Due sono gli elementi non riusciti di questo movimento: il primo è il disarticolato bilanciarsi del primo e del secondo tema che compare, in maniera del tutto imprevista, quando ormai l’Allegro è già nello sviluppo, disorientando l’ascoltatore ed aggravando la situazione con una ripresa che si articola in un’area tonale dissonante (il Fa maggiore, dominante) rispetto al sistema d’impianto (Si bemolle maggiore, tonica).

Questo sperimentalismo armonico e formale, negli anni a venire Schubert avrebbe appreso a padroneggiarlo con destrezza e uno dei motivi per cui val la pena ancor oggi di eseguire questo frammento d’un tentativo mai portato a compimento è proprio quello di poter avere la possibilità d’entrare nella fucina d’un giovane artista alle prime armi che rivela, suo malgrado, la difficoltà d’affinare il proprio potere creativo; quello stesso potere che poi l’avrebbe fatto divenire lo Schubert che ben conosciamo ed apprezziamo.

 

NOTE DI SALA DEL CONCERTO PREVISTO IL 14 FEBBRAIO 2022 E RINVIATO.

PROGRAMMA PREVISTO IL 14 FEBBRAIO 2022

Franz Peter Schubert (Himmelpfortgrund, Vienna 1797 - Vienna 1828)
Trio per pianoforte n. 1 in Si bemolle maggiore, op.99, D.898 (1826 - estate 1827)

  • Allegro moderato
  • Andante un poco mosso
  • Scherzo. Trio
  • Rondò. Allegro vivace

* * *

Trio per pianoforte n. 2 in Mi bemolle maggiore, op.100, D.929 (novembre 1827)

  • Allegro
  • Andante con moto
  • Scherzando. Allegro moderato. Trio
  • Allegro moderato

 

 

Il Trio, come forma musicale, nasce intorno alla metà del XVIII secolo e non nasce tanto come componimento per esecutori professionisti quanto piuttosto per il vasto mercato editoriale dei "dilettanti", cioè di quegli esponenti dei ceti alti, provvisti di una buona e compiuta educazione musicale, che si dilettavano, per l’appunto, a suonare insieme partiture concepite, da Haydn e Mozart stessi, con contenuti di disinvolta cordialità che si esimevano da impegni concettuali eruditi. Il titolo, che spesso veniva imposto ai Trii, di “Sonate per pianoforte con accompagnamento di violino e violoncello” rifletteva il ruolo prioritario della tastiera nella conduzione del discorso musicale, mentre il violino e soprattutto il violoncello (strumenti più complessi per gli esecutori dilettanti) ricoprivano un ruolo nettamente subalterno. Beethoven, che pure aveva riequilibrato il ruolo dei tre strumenti, svincolando il Trio dal puro consumo ad uso dei dilettanti per caricarlo di profonde riflessioni sulla materia musicale, s’era ancora concesso d’indulgere, nel 1811, con il Trio “dell’Arciduca”, op. 97, in liete ed espansive melodie che richiamavano apertamente la concezione amabile e mondana di questa formazione.

Schubert, che del peso di Beethoven avvertì sempre la presenza, cercò di differenziarsi rispetto a quest’ultimo modello e i suoi due Trii, appartenenti entrambi agli ultimi anni di vita del compositore, adottano sì il perfetto equilibrio strumentale recentemente acquisito (cui s’aggiunse la suddivisione formale in quattro movimenti), donando però – nell’ambito dell’intrattenimento “mondano” – una prospettiva di profonda riflessione sulla materia musicale. Il Trio in Si bemolle maggiore, op. 99 (che risale ad un periodo compreso tra l’autunno del 1826 e l’estate del ’27) rivela subito questa struttura: l'Allegro moderato iniziale si apre con un primo tema elegante e ricco di slancio ma cede quasi subito parte della sua velata aggressività, costituita dai ritmi puntati, per stemperarsi cordialmente e cedere il passo ad una seconda idea più lirica che viene esposta dal violoncello. E qui compare una melodia d’impronta liederistica, in questo caso Des Sängers Habe (D.832, “La ricchezza del cantore”) su testo di Franz Xaver von Schlechta, che, elegiaco e mobile nell'andamento, sembra avvolgere in una spirale di canto il movimento, tanto che nello sviluppo centrale il materiale tematico viene riproposto non in un'ottica di conflitto ma di conciliazione, venendo ripreso nelle più diverse combinazioni strumentali che ne danno ogni volta una soluzione espressiva nuova.

Questo modo di procedere, utilizzando linee melodiche di derivazione liederistica fa sì che queste, per la loro natura vocale, siano irriducibili all’elaborazione, basata piuttosto su frammenti, che costituiva l'essenza dello stile classico. Alla crisi del classicismo Schubert non risponde, come molti suoi contemporanei, con la fuga nella disimpegnata miniatura ma reinterpreta in modo personalissimo la dialettica classica, con una successione di melodie che si sostituisce all'elaborazione tematica. La logica razionale e stringente del classicismo viene dunque dilatata e stemperata; viene insomma contemplata in una prospettiva che non è più di attualità, ma di partecipe rimpianto.

Rimpianto che il secondo movimento, nella sua essenza lirica, conferma, con quel tema quasi di barcarola che lo apre, in modo morbido e cullante prima di aprirsi, nella parte centrale, ad un motivo secondario dal colore vagamente zigano e nella tesa tonalità di do minore che lo Scherzo, dalla scrittura leggera e vivacissima, sembra voler disperdere. Procedimenti imitativi tra gli strumenti portano al Trio che trasforma il materiale musicale in un valzer vero e proprio, sottoposto al giro vorticoso e irrefrenabile che Schubert sa imprimere a questo tipo di danza. La ripresa, dai contorni simili ad un insistito parlottio, conclude il tempo e conduce al Rondò finale che deriva e rielabora un altro Lied, Skolie (D.306, “Canto di brindisi”), scritto il 15 ottobre 1815 su testo di Johann Ludwig Ferdinand von Deinhardstein, percorrendolo con rapidi staccati del violino, con insistiti pizzicati del violoncello e con brevi frammenti del piano, in un moto stordente ed esagitato che sfocia, nello sviluppo, in un ritmo d'irrefrenabile tarantella, scintillante di fittissimi trilli, prima che il Presto finale faccia precipitare tutti questi frammenti, vistosamente ritmici, nella chiusa finale ad effetto che sembra quasi echeggiare i versi che risuonano nel Lied: «Nel radioso mattino di maggio, inebriamoci della vita dei fiori prima che il loro profumo svanisca! (...) Dobbiamo temere (la morte)? Dalle labbra delle fanciulle il soffio vitale fa un cenno: chi ne beve sorride alle sue minacce».

La composizione del Trio in Mi bemolle maggiore, op. 100 s'intreccia con quella più travagliata dell'op. 99 e anzi addirittura la precede di poco, in un periodo di vera passione da parte di Schubert per il genere cameristico più nobile e di grandi speranze rivolte al futuro, rafforzate da una nuova consapevolezza di sé, da un orgoglio mai così chiaramente sentito prima. Iniziato nel novembre 1827, Schubert lo completò in brevissimo tempo tanto che già il 26 dicembre di quell'anno fu eseguito per conto del Musikverein di Vienna da parte dei membri del Quartetto Schuppanzigh – i primi interpreti dei Quartetti di Beethoven – con Karl Maria von Bocklet al pianoforte, destando meraviglia ed entusiasmo nel pubblico; qualche mese dopo, il 26 marzo 1828, in un concerto pubblico a pagamento organizzato privatamente dalla Società degli Amici della Musica di Vienna (primo e unico concerto interamente dedicato a Schubert in vita) venne integralmente ripetuto.

Fin dal suo irruento esordio, il Trio cattura l’attenzione dell’ascoltatore con un'energia drammatica e appassionata che non si limita a presentare ed elaborare due temi, come la forma sonata prevede, ma tre: ed è proprio quest’ultimo tema a predominare nello sviluppo, in un clima armonicamente instabile ma dai tratti essenzialmente lirici e antidrammatici che, ad ondate successive, crescono gradualmente sino a un culmine che anziché rendere il senso di cruciale di snodo drammatico, dona, al contrario, il senso profondo d’un rilassamento lirico della forma che, anziché venir direzionato verso la ripresa, diviene risoluzione finale dei contrasti e traccia una serie di cerchi concentrici che sublimano la bellezza del canto strumentale.

È un connotato questo che si estende anche al secondo movimento, costruito attorno ad un canto popolare svedese, Se solen sjunker (“Vedi il sole declina”), che Schubert aveva ascoltato dal tenore Isaak Albert Berg, durante una sua visita a Vienna nel novembre 1827, in casa delle sorelle Fröhlich; dallo spunto popolare iniziale, l’atmosfera trasla però gradualmente ad una sorta di cupa marcia che un accompagnamento sinistro rende dolorosamente ossessiva, facendola poi deflagrare in una ballata di grandiosa violenza emozionale. Lo Scherzo che segue è un modello di concisione: allenta la tensione sin qui accumulata con la sua rustica serenità che richiama istintivamente alla memoria Haydn. Dopo tanto peregrinare i tre strumenti si ritrovano adunati in un canone e sembrano quasi giocare, in un'oasi di distensione che prelude ad un nuovo viaggio verso l'oscuro.

Ed è quel che accade nell'ultimo movimento, una delle cattedrali sonore più ardite che Schubert abbia concepito. E con tre soli strumenti. Parte il pianoforte, solo, nell'apparente svagatezza di un ritmo cullante in 6/8 e cede rapidamente il passo a disegni ora ampi ora tempestosi che delineano una forma che scuote le coordinate della Sonata e del Rondò alla ricerca di equilibri estremi, facendo tornare le idee tematiche dei primi due movimenti e poi quelle dell'Andante, in un gioco parossistico tra lirismo e tenebra, canto e marcia, speranza e dolore. Lo sviluppo attraversa tonalità drammatiche, fino al ritorno del tema iniziale che si prosciuga gradualmente riducendosi infine a un brandello del tema originario; ed è allora che riappare il desolato tema dell'Andante e questa pacata ma sinistra irruzione diventa uno dei momenti più emozionanti della musica di Schubert. Solo quando la disintegrazione sembra completa, dalle rovine nascono nuovamente melodie e ritmi ormai purificati in armonie e timbri di una consolazione attenuata, vellutata: indizio certo d’un nuovo principio.

Per questa sontuosa pagina il commento più adatto lo diede forse lo stesso Schubert, rispondendo, il 1° agosto 1828, a una domanda di Probst e affermando che «l'opera non è dedicata, a nessuno, se non a chi l'apprezzerà. Sarà la dedica più proficua».

Pierpaolo Zurlo

Curiosando

1797

Nell’anno della nascita di Schubert, il 25enne Novalis (pseudonimo di Georg Friedrich Philipp Freiherr von Hardenberg) comincia ad elaborare in un ciclo unitario i suoi sei Hymnen an die Nacht (Inni alla notte) che sono il suo unico ciclo di poesia compiuto pubblicato in vita.
Scritti in prosa ritmica (ad eccezione del VI, della fine del IV e di tre parti del V), costituiscono un organico poema che ha come tema la vittoria sulla morte vista da una prospettiva eroico-filosofico-religiosa che respira della visione d’un mondo nuovo, “romantico”, in consapevole contrasto con il mondo della Klassik e dell’Aufklärung (Illuminismo) e che si nutre dell’emozione d’uno spazio e d’un tempo aboliti, del superamento della soglia tra mondo visibile e quello invisibile, dell'ingresso in una dimensione ulteriore che può donare, a chi ne partecipa, la misura dell'illusorietà della vita materiale.

1828

Dopo aver lavorato a Lucca, a Milano (dove Casa Ricordi stampa, nel 1820, la prima edizione dei suoi Capricci e dove, alla Scala, ottiene la sua consacrazione ufficiale) ed a Roma (dove nel 1827 viene insignito dell’ordine dello Speron d’Oro, la più ambita onorificenza concessa dal Papa), Paganini decide di lasciare l’Italia e in quest’anno, a bordo d’una carrozza, lascia Genova per intraprendere il suo tour europeo: prima tappa, Vienna, dove tiene 14 concerti tra il 29 marzo e il 24 luglio, richiamando folle di ammiratori e i principali musicisti della città, da Schubert a Strauss senior.